Nina

di Majo

Nina di Majo

Libri

L’inverno

Prefazione di Remo Bodei

Nodi è il titolo di una serie di poesie con cui Ronald Laing ha descritto relazioni disturbate e infelici, intessute di accuse e ritorsioni reciproche, che fanno oramai parte del consueto, diffuso, quotidiano pervertimento di rapporti umani destinati ad avvitarsi su se stessi: Maria pensa che Giovanni è meschino e incontentabile Giovanni pensa che Maria è meschina e incontentabile Più Maria ritiene che Giovanni è meschino Più Giovanni ritiene che Maria è incontentabile Più Giovanni ritiene che Maria è meschina Più Giovanni ritiene che Maria è incontentabile. Questi versi mi tornano in mente nel vedere il film e nel leggere la sceneggiatura de L'inverno. In un clima emotivamente gelido, dove le richieste d'affetto si trasformano in brevi vampate di fantasie erotiche e di avances fallite, e dove i tentativi di comunicare si rivelano fragili passerelle sopra abissi di solitudine, ognuno cerca uscite d'insicurezza. Vorrebbe, come Leo, ripudiare il suo passato di scrittore che ha raggiunto un certo successo "senza aver detto una sola verità", ma questo lo porta a chiudersi ulteriormente in se stesso, a non farsi coinvolgere, a provare irritazione e fastidio per l'amore di Marta, che insidia con la banalità delle scadenze di ogni giorno l'amara inquietudine alla quale Leo si sta affezionando come promessa di riscatto da una carriera costellata da compromessi. Difende così, con aspra determinazione, lo spazio fisico del suo luogo di lavoro, che finisce per somigliare a un "ring" dove i due si affrontano. L'intimità, fisica e spirituale, è consumata: «non ti riesco più nemmeno a toccare... sei fredda... non riusciamo mai a parlare di niente di vero, ci giriamo intorno». La tardiva esigenza di autenticità, inasprita dalla difficoltà di esprimerla, porta Leo a essere impietoso, a scaricare il proprio disagio sulla compagna e a concentrarsi, per compensazione, sulla vita fittizia del protagonista del suo romanzo. Vampirizza l'esistenza reale per nutrire quella immaginaria, inaridisce e desertifica il suo mondo per ricostruirne un altro. Indebolito nella sua volontà di vivere, dipinge così allegoricamente la condizione di un malato terminale di cancro, per restare - almeno in questo - fedele alla cognizione del dolore, sapendo che lettori ed editori non gradiranno l'argomento. Come compensazione, il riguardo e la tenerezza per le persone vengono sintomaticamente deviate sulle cose. Per uno che rasenta l'afasia e parla con Marta solo a "monosillabi", aggiustare oggetti desueti e rotti, vecchie macchine da scrivere, sedie o radio accanto a un taciturno amico polacco rappresenta un segno del prendersi cura del mondo senza impegnarsi in rapporti di reciprocità. In una sorta di "quadrato", piuttosto che in un classico triangolo, l'altra coppia, formata da Gustavo e Anna, celebra nella casa di fronte i suoi riti distruttivi. Anche Anna riversa su un cane l'affetto che non riceve da Gustavo e, dopo aver perso l'animale, ripiega pateticamente su un passeggino per cani. La corrente del desiderio e della nostalgia per un bene perduto scorre unilateralmente verso il possesso di una bestia o di un'automobile, di qualcosa che possa, comunque, riverberare il rassicurante senso del non dipendere da altri. Gustavo ferisce e svaluta i sentimenti e le debolezze di Anna, in maniera diversa ma parallela al modo in cui Leo respinge e sminuisce gli interessi e le preoccupazioni di Marta. Crudelmente intensa è la sequenza di «Cena con pioggia», in cui Gustavo umilia Anna a cena, incurante (o esaltato?) dalla presenza degli ospiti. La loro relazione - si viene poi a sapere - è oramai allo stremo. Anna trova Gustavo "vecchio e ributtante" e si sente attratta da Leo, più come scrittore che come uomo. Gustavo, a sua volta, si consola con Natasha, una donna più giovane, magistralmente presentata, con pochi incisivi tocchi, quale una specie di »Cleopatra imperatrice nella versione pulp». I gesti di tenerezza restano nell'aria (a Marta Leo vorrebbe fare »una carezza ma non ci riesce»), oppure si degradano in sgraziati tentativi di approfittare della debolezza dell'altro per imporre il contatto fisico. Ognuno, a suo modo, è fragile e vulnerabile anche nella sua aggressività, avviluppato in rapporti fittizi, ma terribilmente reali nei loro effetti. L'inadeguatezza a fare e "dire qualcosa di vero", il gusto di sprofondare nella dissipazione di sé e l'aspirazione a risorgere sono frustrati dall'incapacità di condividere lo stesso mondo. I personaggi sono condannati. Solo quando Leo viene abbandonato da Marta capisce ciò che ha perso e implora: «Tendimi la tua mano / Portami in salvo...». Ma siamo al finale di partita. Il grido echeggia nel vuoto, la domanda tardiva d'amore e di redenzione resta inevasa, a testimonianza della vita mutilata che incombe su tutti. In un'atmosfera cinematograficamente segnata dal simbolismo dell'acqua (dai ritmi lenti del fiume, della pioggia, dalle gocce che scorrono sulla parete di vetro della doccia), dai riflessi sui vetri che marcano la trasparente separazione tra vite parallele, il testo e la pellicola di Nina di Majo mostrano la sua scabra, sofferta, amara, esigente capacità di rappresentare i destini personali quasi come un'entomologa o una geologa. è come se guardasse a «formicai» umani o ad abbacinanti paesaggi di un'era glaciale nelle relazioni tra individui. Sin dai primi cortometraggi, come Era una notte buia e tempestosa per giungere al film Autunno del 1999, Nina non concede nulla al gusto corrivo di un pubblico cinematografico anestetizzato da storie di facile intrattenimento dal finale immancabilmente roseo. Il suo rigore (tinto di trattenuta indignazione, memore, nell'autonomia espressiva che si sta vigorosamente conquistando, della lezione del Nanni Moretti di La mnessa è finita) rifiuta di sciogliere in una melensa "pappa del cuore" i grumi di angoscia e di disperazione che la sua ricerca incontra nella realtà, di nascondere il pericolo che ognuno diventi la caricatura di se stesso, una marionetta i cui fili sono mossi da forze sconosciute. Non siamo più ai temi dell'"incomunicabilità" che l'Antonioni degli anni Sessanta incastonava elegantemente in contesti di disincanto, cercando effetti di straniamento rispetto a un modo inebriato dal recente benessere del boom e disorientato rispetto al tramonto dei valori tradizionali, splendidamente rimpianti da Pasolini. No, senza compiacimenti nichilistici, qui il disincanto è già esaurito. Nell'inverno dell'anima, quasi con la crudeltà dei racconti di Carver, i sentimenti sono appassiti. Il dramma non ha sbocchi, resta la speranza immotivata, l'invocazione: «Tendimi la tua mano / Portami in salvo...».

Remo Bodei